<<Come? Come sarebbe a dire che ti senti
scomoda?>>
Sophie bevve ancora un sorso del suo the freddo, ponderando
dentro la testa le parole più adatte per rispondere.
<<Non lo so. E’ una sensazione che ho da qualche tempo
quando sto con te. Negli ultimi mesi più del solito, a dire il vero...>>
<<Perché non me ne hai mai parlato?>> gli occhi
dell’uomo iniziarono a rabbuiarsi.
Un silenzio scomodo e pesante cadde sui due. Era una di
quelle pause talmente dense di imbarazzo che si potrebbero affettare con un
coltello. Chi attende la risposta vorrebbe non aver posto la domanda; e chi
deve parlare sinceramente vorrebbe trovare una scappatoia per girare intorno a
quella verità che fa male.
E Sophie, la verità, la disse: <<Perché noi non
parliamo più, pà!>>
D’un tratto la poltrona in pelle su cui sedeva suo padre era
diventata dura e scomoda come la pietra. L’uomo sospirò profondamente: il classico sospiro impegnativo, di chi si
arrende di fronte all’evidenza.
<<Hai ragione>> sussurrò poi, con lo sguardo
fisso a terra. <<Quando hai smesso di essere la mia bambina? Quando abbiamo
iniziato a trattarci da estranei, io e te? Ricordi quanto eri fiera se qualcuno
diceva che mi somigliavi, che sembravi proprio figlia mia? Con questa
personalità complessa, corazzata e dura da penetrare, ma con un animo sensibile
e amabile, in fondo. Forse abbiamo lasciato che le nostre corazze si
irrigidissero troppo. Perché ci siamo messi sulla difensiva?>>
Sophie non sapeva da dove iniziare. Si era chiesta molte
volte se quell’allontanamento si sarebbe potuto evitare se entrambi si fossero comportati
diversamente. Ma di “se” non si campa, e facendo supposizioni non avrebbe
risolto di certo il problema che ora esisteva con suo padre.
<<Hai smesso di ascoltarmi, di spingermi verso le mie
ambizioni, e invogliarmi come un padre fa con un figlio. Ad ogni mio successo
aggiungevi solo una critica. E ad ogni mio fallimento, un’ovvietà a cui ero già
arrivata. E, proprio perché sono come te, dovresti sapere che il mio animo
sensibile avrebbe avuto bisogno di una pacca sulla spalla ogni tanto; di
qualche riconoscimento; di un sincero “sono fiero di te”. Non credo di aver mai
sentito queste parole uscire dalla tua bocca, papà! Ho sgretolato ogni mia
fantasia, crescendo troppo in fretta, maturando responsabilità e senso di
realtà prima del tempo. “Roba da bambini, i sogni”, dicevi. “Meglio stare coi
piedi per terra, così la vita ti riserverà meno sorprese quando ti sveglierai!”.
Beh, una vita senza sogni e senza la voglia di provare tutto per realizzarli
non ha senso. E avresti dovuto avvisarmi di questo, piuttosto che spingermi a
crescere senza ambizioni.
Hai criticato le mie scelte in ogni ambito, e per me vale come un’enorme
critica alla mia esistenza. Per ultima non poteva mancare la tua brillante uscita
a proposito della mia scelta di amare un’altra ragazza e sul pensiero di farmi
una famiglia.>>
<<Se è di questo che si tratta… beh, lo sai che non
condivido certe cose, e non posso farmi violenza mentale per poterle accettare.>>
<<Lo so, e non ti ho mai chiesto di farlo. Ma tra il
non accettare e l’augurarsi di essere morto se la propria figlia dovesse avere
un figlio non concepito nel metodo tradizionale, papà, c’è parecchia
differenza!>>
Il padre sembrava ormai senza difese. Sophie, invece, era
esausta. Non avrebbe voluto proseguire, ma sapeva che per provare a sistemare
le cose, avrebbe dovuto sputar fuori tutto quanto la turbava dentro.
<<Papà, hai mai contato quante volte mi rivolgi la
parola in un giorno?>>
<<Ma che cosa stai blater…?>>
<<Oggi?! Oltre alla conversazione che stiamo facendo
ora? Tre. Sì, le ho contate. Sono tre! La prima: ti ho salutato stamattina, io. La
seconda: ti ho chiesto se avessi voglia di pranzare con me e mio fratello. Cosa
che poi, ovviamente, non hai fatto. La terza: ti ho cercato per sapere che cosa
avresti voluto fare domani, visto che volevo organizzare una gita in montagna per
te. Tre volte in un giorno, e per giunta su domande mie. Ho motivo di sentirmi
leggermente “scomoda”, non voluta in casa?>>
<<La colpa non è solo mia, Sophie. Sei tu che ti sei
allontanata, e hai deciso di essere un’ospite nella tua stessa casa. Vai e
vieni solo quando ne hai voglia, non chiedi e non domandi. Io e tua madre siamo
di troppo nella tua vita. Per uscire tutti insieme per una pizza tua madre ha
dovuto chiedertelo con una settimana di anticipo. Ti pare anche questo il modo
di comportarsi?>>
<<Forse sbaglio anche io, hai ragione. Ma i miei
motivi riguardando una situazione che sicuramente anche tu avrai vissuto.
Voglio passare del tempo con la persona che amo, perché voglio creare con lei
dei momenti solo nostri, in cui provare a coltivare l’amore che è nato qualche
mese fa e che ha bisogno di attenzione e premura, come ogni relazione che si
rispetti. Non voglio trascurare lei, e non voglio trascurare voi, sia chiaro. E' normale che non possa essere più presente come un tempo in casa. Ma questo
che cambia?! E’ una cosa così naturale…! Sei così solo perché il mio tempo lo
trascorro con qualcuno che amo e che tu non condividi. Fosse stato un ragazzo
non ti saresti arrabbiato tanto, vero?>>
<<Non lo so, Sophie. Non lo so… Io ti voglio bene; io
voglio il t u o bene! E devo dirti che non è così che avrei
immaginato la tua vita; non è così che avevo immaginato di lasciarti andare via
da me…>>
<<Lascia stare, pà. Alla fine si torna sempre a parare
lì: saremo anche simili, ma qualche ideale differente ce l’abbiamo. E sai cos’è
la cosa più triste che mi viene da pensare, ora? E’ che non siamo riusciti
neanche a farlo davvero, questo discorso. E’ rimasto solo nella mia testa. Non
ha senso iniziare una discussione con te proprio perché saprei esattamente ogni
tua risposta, ogni tuo inerpicarti su ideali e morale, tirando fuori un Dio
fatto su misura (la tua misura!) per provare a convincermi di qualcosa che,
secondo me, neanche tu accetti fino in fondo. Dai, finiamola qui, non ha senso
iniziare la rincorsa se poi so che sbatterò per l’ennesima volta contro la tua
corazza.Mi fa male, lo sai… ma ti voglio bene. Nonostante tutto.>>